Pasolini visto da lontano

Willem Dafoe si cala nei panni e nella psicologia di Pier Paolo Pasolini

Willem Dafoe si cala nei panni e nella psicologia di Pier Paolo Pasolini

Forse ci voleva proprio un regista americano per realizzare un film decente su Pier Paolo Pasolini. Forse occorreva un oceano di mezzo per consentire quel distacco, quell’oggettività che in Italia ancora non riusciamo ad avere quando ci accostiamo a quello che è probabilmente il più influente e importante intellettuale del Novecento italiano. Brutto a dirsi, ma non siamo ancora pronti a parlare di Pasolini, divisi in fazioni come da sempre siamo. In un’Italia per cinquant’anni divisa tra democristiani e comunisti, un personaggio disallineato come Pasolini non poteva non risultare urticante a tutti gli schieramenti. Odiato dai cattolici per lo scandalo della sua omosessualità, odiato dai fedeli alla linea del Pci per la sua indipendenza di pensiero (che sfocerà nel suo distaccamento dal Partito), dimenticato o mai davvero conosciuto dagli altri.

Certo, la notizia che a dirigere un film dedicato al poeta di Casarsa sarebbe stato un autore radicale (e spesso estremo) come Abel Ferrara non è esattamente una garanzia di equilibrio. Ferrara non è tipo che si risparmia, se deve sbagliare preferisce farlo per eccesso; non lascia mai, raddoppia soltanto. Oltretutto alla figura di Pasolini è legato anche il mistero sulla sua morte, con annesso carico di dietrologie, e il Bronx dove il giovane Ferrara è cresciuto non è esattamente una prospettiva privilegiata per poter avanzare ipotesi. Insomma, sulla carta l’operazione presentava un tasso di rischio altino.

E invece? E invece Abel Ferrara si è dimostrato autore intelligente, che ha fatto l’unica cosa che poteva fare: parlare del Pasolini artista. Non dei misteri sulla sua morte (come al contrario fece a suo tempo Marco Tullio Giordana, che ricostruì le indagini sull’omicidio nel suo Pasolini, un delitto italiano, un film documentatissimo che però aveva l’enorme limite di ridurre la figura del poeta ad un caso di cronaca giudiziaria). Pasolini è il film di un artista che parla di un altro artista, che ha conosciuto, amato e dal quale è stato influenzato. È un film sul pensiero pasoliniano, sulla sua importanza colossale, sulla sua modernità, sui tormenti che assillavano lo scrittore negli ultimi mesi della sua vita (il film, incentrato sull’ultimo giorno, inizia con Pasolini intento a montare il Salò, non esattamente il film di un uomo pacificato col mondo). Non solo: è anche un film sul Pasolini privato, sul suo universo, le sue passioni, i suoi affetti, dai quadretti familiari con le uniche donne della sua vita (la madre, la sorella, Laura Betti) alle digressioni sul suo amore per il calcio, per le borgate, per tutto ciò in cui ancora credeva di scorgere una scintilla di verità.

Il Pasolini incarnato da Willem Dafoe (impressionante per la somiglianza anche fisica) è un intellettuale tormentato, che ha già abdicato alla Trilogia della Vita e che deve combattere per non lasciarsi travolgere dal male del mondo nel quale si sente immerso, un mondo in cui la modernizzazione selvaggia ha ucciso le ultime manifestazioni autentiche di vitalismo per lasciar spazio ad un caos in cui o si muore per caso agli angoli delle strade o se va bene si viene irreggimentati da un sistema scolastico, culturale e massmediale che non lascia scampo. È anche l’uomo dei grandi progetti incompiuti o mai realizzati: alcuni capitoli di Petrolio, per cominciare, ma soprattutto il film Porno-Teo-Kolossal, che Pasolini progettava di girare con Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli poco prima che la morte lo cogliesse nel modo più barbaro possibile. Quasi come se fosse un atto di giustizia divina, Abel Ferrara trasforma in immagini quelle che erano solo idee nella mente di Pasolini, mettendo in scena alcuni passaggi di Porno-Teo-Kolossal ma sempre con l’intelligenza di evitare ogni tentazione di emulazione dello stile registico pasoliniano. Un autore che parla di un altro autore, appunto.

Insomma un’immersione nell’universo pasoliniano di un’ora e venti, fino alla terribile sequenza dell’aggressione sul lungomare di Ostia nel quale lo scrittore perse la vita, resa ancora una volta nella maniera più oggettiva e verosimile possibile, lontano da ogni dietrologia. Certo, non è un film perfetto, soprattutto per la scelta di un plurilinguismo che alla lunga spiazza (di fatto Dafoe recita in italiano se la frase ha meno di cinque parole, altrimenti va con l’inglese), ma forse a conti fatti meglio così piuttosto che sentire parlare in inglese i ragazzi di vita delle borgate romane.

Presentato in anteprima al Festival di Venezia davanti a un pubblico selezionatissimo (tra cui Belen Rodriguez e consorte, ai quali sicuramente non saranno sfuggiti i celati rimandi all’opera e al pensiero pasoliniano), il film uscirà nelle sale italiane a fine settembre, e – c’è da augurarselo – provocherà dibattiti. Che saranno anche il termometro di quanto l’Italietta, a quarant’anni di distanza da quella notte sul lungomare di Ostia, sia pronta a parlare sul serio di quell’uomo così enorme, ingombrante e inarrivabile.

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