La grande bellezza

Toni Servillo è Jep Gambardella, protagonista de La grande bellezza

Toni Servillo è Jep Gambardella, protagonista de La grande bellezza

Sorrentino lo sapeva bene. Sapeva che a fare un film sulla vacuità degli appuntamenti mondani della capitale non avrebbe mai potuto scrollarsi di dosso il peso di un paragone insostenibile anche per spalle ormai larghissime come le sue. Lo sapeva, e ha deciso di non negare l’ispirazione, ed anzi di abbracciarla esplicitamente, mantenendo la stessa struttura a blocchi narrativi indipendenti che caratterizzava La dolce Vita, e giocando ad infilare qua e là alcuni divertiti omaggi all’opera felliniana (le monachine che ricorrono per tutto il film, un prete che si diletta su un’altalena che sembra uscita da Lo sceicco bianco, oltre ad un fugace riferimento ad un “enorme mostro marino” come quello che compariva nel finale proprio de La dolce Vita).

Ma sarebbe superficiale ritenere che Sorrentino abbia voluto realizzare una sua versione aggiornata agli anni Duemila del capolavoro di Fellini. Non tragga in inganno l’indubbia parentela tra i due film, e nemmeno l’assonanza tra i titoli: l’obiettivo de La grande Bellezza non è di dipingere un affresco di quello che è diventata la Città Eterna, ma, come in ogni film del regista napoletano, è quello di raccontare la storia di una solitudine.

È fondamentalmente un uomo solo, Jep Gambardella. Solo e perso in un passato che – forse per contrasto con il suo mediocre presente – non evita di idealizzare. Esattamente come tutti i protagonisti delle opere precedenti del regista. Erano uomini soli gli omonimi Pisapia ne L’uomo in più, un tempo celebri ed ora presi a calci dalla vita. Era solo Titta Di Girolamo, il mediocre corriere di denaro sporco che vedeva un’impossibile salvezza nelle fattezze di una giovane cameriera (salvo farsi ingannare dalle Conseguenze dell’Amore). Viveva nel passato la rockstar Cheyenne in This must be the Place, ed era solo perfino Il Divo Andreotti, chiuso nella torre d’avorio delle grigie stanze del potere. Qui il fido Servillo (enorme, ma ormai è superfluo dirlo) diventa un ex scrittore dalla fortuna effimera riciclatosi giornalista mondano (riecco Fellini e Mastroianni), ma la vacuità delle feste a cui partecipa per annacquare la sua apatìa non bastano ad evitargli una profonda crisi di mezza età, a cui riesce a porre rimedio soltanto nell’illusione – frustrata – di un amore diverso, con una ragazza che al contrario di lui vorrebbe vivere ma non può, e perdendosi nel grande mare che campeggia sul soffitto della sua camera e che lo riporta ad un passato ideale (forse felice) in cui ha fugacemente conosciuto la vera bellezza sotto le forme innocenti e perfette della ragazza che per prima gli si concesse.

C’è un elemento tutt’altro che secondario che spiega bene la misura della profonda differenza che intercorre tra il film di Fellini e quello di Sorrentino: Roma. Ne La dolce Vita quello del giornalista gossipparo Mastroianni era certamente un personaggio problematico e complesso, ma prima di ogni altra cosa era il tramite attraverso cui lo spettatore entrava in contatto con la nuova Roma, e con quello che stava diventando negli anni del post-boom economico e del cambiamento del costume sessuale. Insomma una sorta di Caronte o di Virgilio che ci sballottava tra una festa e l’altra, da un locale all’altro, attraverso cui si vedevano in filigrana i segni di quello che sarebbe diventata (o forse era già) l’Italia. Per questo La dolce Vita ebbe un impatto sociale che non è paragonabile a quello di nessun altro film nella storia del cinema italiano. Sorrentino percorre strade diametralmente opposte, e sostanzialmente non racconta com’è Roma. Non gli interessa farlo. Quella de La grande Bellezza è una Roma irreale, metafisica, vuota, in cui si può camminare la sera per Via Veneto senza incrociare auto o passanti, cristallizzata in un passato mitico ma ormai in decadimento. Insomma, la città diventa lo specchio esatto del suo protagonista, diventa una proiezione della sua anima, della sua vacuità, del suo sentire profondamente che qualcosa nel corso dei suoi anni è andato irrimediabilmente perduto.

Avvolgendo lo spettatore nelle fitte trame dei suoi movimenti di macchina, dei suoi carrelli, dei suoi dolly virtuosistici, Sorrentino non rinuncia a fare quello che fa meglio, e cioè sfoderare l’arma tagliente del grottesco per colpire con la sua forza deformante tutto e tutti: artisti concettuali, alti prelati, nobili decaduti, anziane tardone devastate dal botox, vescovi che si intendono più di cucina ligure che di religione, festaioli, e soprattutto il chiacchiericcio vuoto e radical-chic di un’alta borghesia che riempie con improbabili ambizioni artistiche la propria noia, in una carrellata di volti degna del Fellini del Satyricon più che di quello della Dolce Vita. Ma su tutto domina l’ombra verticale di Jep Gambardella, che con il suo sarcasmo tagliente e la sua risoluta superiorità si lascia pigramente sopravvivere mentre il mondo intorno a lui non crolla neanche più, ma piuttosto è rassegnato nella propria inutilità, perso com’è nella gloria delle vestigia del passato per poter vivere davvero il proprio presente (figuriamoci il futuro).

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Una risposta a La grande bellezza

  1. Orfeo ha detto:

    Gran bel post, a differenza del film in cui, fatta salva la classe di Servillo e certe note di scrittura che lo accompagnano, ho rischiato di soccombere alla noia, quella sì molto ben rappresentata

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